LA VITA DI GESU' IN STEREOSCOPIA
25 stereoscopie
Colortype Co. - Chicago - 1925
 
 

SULLA STEREOSCOPIA
Dalla rappresentazione del reale alla sua clonazione
di Antonello Satta

Padova, 2002

È indubbio che la nostra tendenza innata alla rappresentazione sia in parte determinata dalla nostra naturale struttura fisiologica e percettiva, strutturata secondo il doppio processo di ricezione ed elaborazione degli stimoli ricevuti dall'esterno.
Già Aristotele aveva rilevato questa caratteristica quando sosteneva che l'uomo, per pensare, ha bisogno di immagini.
Questa tendenza, che emerge anche in molte manifestazioni della nostra psiche, ad esempio nell'attività onirica, è favorita dall'estrema rilevanza che ha sempre avuto il senso della vista nella nostra esistenza. Non è un caso se il ruolo della visione, nell'elaborazione del pensiero umano, inteso in senso collettivo, ha determinato frequenti cambiamenti di paradigma nel nostro modo di concepire il mondo. Al riguardo, estremamente chiarificatoria è stata l'opera dello storico dell'arte Ernst. H. Gombrich, che ha sottolineato in molte sue opere la relazione tra il carattere sensoriale delle varie civiltà e le loro motivazioni culturali; così se gli egizi rappresentavano ciò che "sapevano", i greci raffiguravano ciò che "vedevano" e gli artisti medioevali esprimevano ciò che "sentivano". Questa stretta relazione tra immagine e pensiero è una costante di tutta la storia dell'uomo.
Pensando alla storia dell'arte, non solo come storia di stili, convenzioni e poetiche, ma come storia di artisti e della loro relazione con il mondo, quella che può essere definita "pulsione alla rappresentazione" ha avuto proprio nel confronto con il mondo reale un costante punto di riferimento.
Se, come sostiene Heinrich Schwarz in "Arte e Fotografia", la ricerca pittorica si è configurata per secoli come il continuo tentativo di riprodurre, in modo sempre più fedele, il mondo reale su una superficie bidimensionale, è indubbio che questi tentativi abbiano raggiunto i massimi risultati, tra Seicento e Settecento, nei "trompe-l'oeil" e nelle illusioni prospettiche.
Nonostante si sia riusciti solo nel Rinascimento a formulare le leggi della prospettiva che regolano la nostra visione del mondo, il tentativo di raffigurare il paesaggio con assoluta fedeltà è molto più antico; esemplare è, al riguardo, la vicenda narrata da Plinio e relativa alla gara pittorica tra Zeusi e Parrasio, tesa a dimostrare chi dei due fosse più abile. Mentre Zeusi "presentò dell'uva dipinta cosi bene che gli uccelli si misero a svolazzare sul quadro, [Parrasio] espose una tenda dipinta con tanto verismo che Zeusi, pieno di orgoglio per il giudizio degli uccelli, chiese che, tolta la tenda, finalmente fosse mostrato il quadro; dopo essersi accorto dell'errore, gli concesse la vittoria con nobile modestia; se egli aveva ingannato gli uccelli, Parrasio aveva ingannato lui stesso, un pittore".
Ma è proprio tra Seicento e Settecento, con l'uso in campo pittorico della camera oscura, che questa ricerca diventa palese. L'avvento della fotografia, alla fine del terzo decennio dell'Ottocento, sembrò poi concludere questo sforzo.
Nel 1827 Joseph Nicéphore Niepce, dopo vari anni di tentativi, riescì a fissare stabilmente su una lastra metallica ricoperta di bitume di Giudea una veduta dalla finestra del suo studio. Due anni dopo, il pittore francese di Diorami Louis-Jaques Mandé Daguerre riuscirà ad associarsi a Niepce per il perfezionamento dell'invenzione, ma la morte improvvisa di quest'ultimo, nel 1833, gli consentirà di beneficiare da solo dei risultati del loro sodalizio. In quegli stessi anni anche altri ricercatori erano impegnati nello studio di un sistema per riprodurre fedelmente il mondo reale su una superficie bidimensionale.
In Inghilterra, fu William Henry Fox Talbot, uno scienziato di fama internazionale, a mettere a punto, gia dal 1834, un procedimento per rendere sensibili alla luce dei fogli di carta; egli perfezionò il metodo fino a giungere, nel 1841, alla "calotipia", una tecnica basata sull'uso del negativo di carta che segnò una svolta nella storia della fotografia: la possibilità di duplicare infinitamente l'immagine di un soggetto, a partire da un'unica matrice.
Anche altri due ricercatori, Hercules Florence in Brasile e Hippolyte Bayard in Francia, tra il 1833 e il 1839, riuscirono a fissare stabilmente le evanescenti immagini della camera oscura, ma fu il processo fotografico che da Daguerre prese il nome ad imporsi immediatamente sul mercato, grazie anche all'appoggio del governo francese che ne acquistò il brevetto per donarlo gratuitamente al mondo intero. Era il 1839. Finalmente l'antico sogno dell'uomo di duplicare il reale su una superficie bidimensionale giungeva a coronamento.
Contemporaneamente all'attività di questi ricercatori, e ancor prima che i loro risultati fossero di pubblico dominio, a partire dal 1832, il fisico inglese Charles Wheatstone, compì studi sulla visione binoculare che lo porteranno a mettere a punto lo stereoscopio a specchi, dal greco stereós ("solido", "tridimensionale"), e skopein ("vedere"), con il quale era finalmente possibile osservare immagini tridimensionali, a partire da due disegni dello stesso soggetto, ottenuti da due punti di osservazione distanziati tra loro quanto i nostri occhi.
"Senza la fotografia - scriveva il pittore e fotografo Henri De La Blanchère nel 1861 - lo stereoscopio sarebbe rimasto una curiosa applicazione ottica, ma con un ruolo limitato alla presentazione in rilievo di solidi geometrici, in piccolo numero, disegnati con difficoltà con riga e compasso".
Con l'introduzione della fotografia, Wheatstone cercò subito di coinvolgere numerosi fotografi, affinché realizzassero qualche coppia di immagini per il suo strumento, ma, nonostante promettenti risultati, si dovrà superare la metà del secolo per la diffusione del nuovo metodo. Ciò avverrà con la presentazione, alla grande Grande Esposizione Universale di Londra del 1851, di un nuovo modello di stereoscopio (a lenti) ideato dal fisico David Brewster. Il successo fu così straordinario che in soli tre mesi, a Londra e Parigi, se ne vendettero quasi 250.000 pezzi. Di colpo iniziarono a costituirsi decine di società di produzione di stereoscopi e stereografie al punto che ben presto non esisteva luogo della terra o soggetto che non fosse abilmente riprodotto in tre dimensioni.
La London Stereoscopic Company, fondata intorno al 1854 con lo slogan "Nessuna casa senza uno stereoscopio" vendette nei primi due anni di attività 500.000 stereoscopi, arrivando ad avere in catalogo 10.000 soggetti. Nel 1856 il numero dei soggetti era salito a 100.000. Le vedute stereoscopiche riguardavano principalmente monumenti e luoghi geografici, non solo inglesi, ma di ogni angolo del mondo. Il grande fotografo William England lavorò per questa compagnia sin dalla sua fondazione e fu autore di migliaia di straordinarie stereografie realizzate ovunque, come l'apprezzatissima serie "America in the Stereoscope", che rivelò al pubblico inglese gli sconfinati paesaggi e le innovative architetture degli Stati Uniti.
Nel 1859, come auspicato dalla London Stereoscopic Company, non esisteva casa senza stereoscopio e, proprio in quell'anno, Charles Baudelaire annotava come "Migliaia di occhi avidi si chinano sui buchi dello stereoscopio come sulle finestrelle dell'infinito".
Era nata la stereoscopia. Se la fotografia ai suoi esordi pareva dovesse uccidere la pittura, la nuova forma di rappresentazione si presentava come un passo ulteriore; bisognava solo attendere le prime stereografie abilmente colorate a mano per illudersi (ancora una volta) di aver concluso il cammino.
La storia ha poi dimostrato che la rappresentazione non è solo verosimiglianza, ma anche evocazione, e così la pittura, dopo la fotografia, ha ritrovato dignità, iniziando a interpretare la realtà trasfigurandola, e la stessa fotografia ha dimostrato la sua estetica, che non è la pura duplicazione del reale.
La stereoscopia ha meravigliato l'uomo per circa sei decenni, poi l'epoca moderna, con le fotografie animate del Cinematografo e gli ideali del Futurismo, ha aperto gli occhi su un'altra dimensione del reale, il movimento, assente nella magica, misteriosa e "cadaverica" fissità delle fotografie stereoscopiche.
Di questo frammento della nostra storia, che riguarda gli esordi della rappresentazione del mondo in rilievo - prima del cinema tridimensionale, dell'olografia e poi di chissà cos'altro ancora - ci restano le affascinanti immagini stereoscopiche, a testimoniare un'epoca in cui non esisteva la frenesia d'oggi, e in cui, nella difficoltà di recarsi per il mondo, era il mondo stesso in tre dimensioni, con tutte le sue suggestioni, a recarsi in ogni abitazione, proprio come accade oggi per il mezzo televisivo, ma con ben altra poesia.

 

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